Il Dpcm del 24 ottobre chiude i teatri per un mese. Una soluzione drastica che getta il sistema nuovamente nel buio e nell’incertezza. Al di là dei ristori e degli aiuti economici, il dibattito non può prescindere da una riflessione sul senso e sul ruolo che teatro, cultura e spettacolo hanno nella società civile.

 

In questi giorni avrei voluto scrivere per ringraziare il Cda della Fondazione I Teatri per la rinnovata fiducia ad un percorso iniziato tre anni fa e che proveremo, insieme a tutti i colleghi, a portare avanti con impegno ed energia nel prossimo triennio.
Avrei voluto raccontarvi di un ritorno a teatro, in questo autunno, complicato e bellissimo, per noi e per i tanti che lo aspettavano e che hanno ripreso a frequentarlo, come una abitudine e, insieme, una necessità assoluta.
Avrei voluto ricordare la bella festa di Figaro! OperaCamion nella piazza dei Teatri, con la quale abbiamo riabbracciato la città, così come un Festival Aperto con cui abbiamo voluto esserci, in piena sicurezza per interrogarci, insieme con gli artisti e il pubblico, su questo tempo indecifrabile.
Parlarvi dei prossimi appuntamenti da qui a fine anno, e poi ancora lanciare le diverse stagioni che abbiamo immaginato e programmato, fino a prova contraria.
E invece, in poche ore, siamo riprecipitati nel buio e nell’incertezza. Teatri chiusi al pubblico per un mese. Punto.
Non voglio discutere di emergenza sanitaria o di terapie intensive, né di crescite esponenziali del contagio e di morti. Non sono titolato a farlo e penso che non sia quello il terreno di confronto su cui ragionare.
Ma proprio perché temo che, nel giro di poco, l’emergenza renderà probabilmente superflue queste parole, ho sperato che questa volta la politica potesse darsi il tempo di decidere e di scegliere. Quel tempo (anche se poco) che non aveva avuto nella imprevedibilità che ci ha colpito in primavera.
Ho sperato che per una volta si potesse immaginare la cultura, tutta, e i suoi luoghi, come presidii sociali e civili del paese. Perché sono spazi pubblici di pensiero. Perché la cultura e l’arte – ancor più nei momenti bui e fragili – sono essenziali. Come la scuola, appunto.
Ho sperato che qualcuno potesse addirittura rivendicare politicamente tutto questo.
E non importa per quanto tempo. Fosse anche per qualche giorno, valeva la pena provarci.
Ci siamo abituati – come tutti gli altri settori – ad adeguarci in fretta alle normative, a gestire in sicurezza le nostre attività, con protocolli, regole stringenti e investimenti economici, rendendo i teatri luoghi sicuri: lo dimostrano le statistiche.
Lo facciamo per tutelare il pubblico, e le tantissime professionalità che lavorano quotidianamente nei teatri. Così come qualsiasi filiera produttiva sta gestendo le complicazioni derivate dalla pandemia.
Certamente la tutela della vita e della salute dei cittadini avrà sempre la priorità: è indiscutibile, ma discutibile rimane la scelta – qui e ora – di chiudere i teatri e i cinema e di lasciare la libertà che la domenica i cittadini vadano prima a messa e poi al ristorante.
Abbiamo messo tutto il nostro impegno per riaprire in sicurezza luoghi che sono di tutti e per tutti, abbiamo ripensato e riprogrammato produzioni e attività per il prossimo futuro; stiamo affrontando investimenti che non si smontano e non si cancellano da un giorno all’altro, cosi come gli impegni con artisti, maestranze, organizzatori che improvvisamente ancora una volta, si vedono crollare il mondo addosso.
Proveremo a tutelarli il più possibile, come è giusto fare; e rivendicheremo un sostegno, per le strutture che gestiamo e per loro. Ma gli indennizzi e i ristori non sono la panacea universale e la sensazione è che ancora una volta siamo sembrati superflui e, per questo, sacrificabili per primi.
Forse dovremmo ricordarci che uno dei simboli riconosciuti del nostro Paese – oltre al Parmigiano Reggiano e alla Ferrari – continua ad essere la Scala, un teatro pubblico, custode e simbolo di quel patrimonio immateriale che ha rappresentato e rappresenta nel mondo. Insieme al resto dei teatri italiani.
Chiederci di rimanere aperti, anche per poco, avrebbe avuto il senso di un impegno condiviso per non farsi derubare ancora una volta di quell’immaginario collettivo che la cultura e l’arte, i suoi artisti e i suoi luoghi rappresentano per la collettività. Un senso e un immaginario più che mai necessari in questo momento.
Paolo Cantù
Direttore Fondazione I Teatri Reggio Emilia

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