Se n’è andato il 17 luglio, a 93 anni, lo scrittore siciliano “padre” di Montalbano, meraviglioso raccontatore di storie antiche, innamorato del teatro da sempre, intellettuale sensibile, colto e curioso, diceva che il sapere va seminato a piene mani, come il grano. Un grande maestro per tutti.

Aveva radici lontane, che si perdono nella Magna Grecia, e un cuore antico, l’amore di Andrea Camilleri per il teatro, declinato in tantissime forme, compresa quella della critica teatrale per la rivista Scenario. La “teatralità”, per Camilleri veniva prima del teatro; anzi, quest’ultimo si fondava proprio e soltanto su quella. Shakespeare, Pirandello, il Teatro dei Pupi, le Maschere della Commedia dell’Arte erano i suoi irrinunciabili miti personali che, insieme a costanti ossessioni (le trasfigurazioni, il “doppio”, le identità nascoste), ritroviamo nei suoi scritti di teatro come negli adattamenti per la scena dei suoi racconti, e nella lingua che usava perfino nelle inchieste del Commissario Montalbano: quella parlata, dialettale, inventata come un Aristofane dei nostri giorni. Senza questa vampa di teatro immateriale, da teatrante consumato, che tracima i suoi romanzi, quella giostra delle meraviglie che è il suo universo letterario e poetico, non ci sarebbe stato il successo popolare dello “scrittore” Camilleri, che scrittore non era, mentre rimaneva uno straordinario narratore di favole antiche, in cui riusciva a fare trasparire tutta la forza e il tragico della nostra contemporaneità. In questa sua particolare modalità di racconto, l’oralità prendeva il sopravvento sulla scrittura.

Camilleri attore l’abbiamo visto soltanto una volta in occasione della sua Conversazione su Tiresia al Teatro Greco di Siracusa, esperienza che rimane incancellabile nella nostra memoria perché, in quel caso, la persona e il personaggio, senza alcun visibile artificio o “professionismo” recitativo, diventavano nel corso della serata una cosa sola. Era, infatti, alla sua originaria e confessata passione per l’“artigianato” teatrale che Andrea Camilleri doveva la sua stessa ragione di vita. «Da quando non vedo più, vedo meglio» diceva Camilleri/Tiresia; e, pronunciata in quel contesto, la frase sembrava andare oltre il suo significato letterale per assumerne uno più ampio e metaforico: la sostanziale prevalenza dello sguardo interiore, dell’occhio segreto rispetto a quello fisico, del corpo, che ci permette di vedere ma non di guardare, studiare, osservare le cose nella loro profondità e privata verità.

Una condizione mentale e spirituale che, unita a un’immensa curiosità, hanno fatto dell’autore siciliano uno dei più prolifici della sua generazione. Regista radiofonico, teatrale, televisivo aveva all’attivo una serie di adattamenti, alla maniera di Pirandello, di suoi racconti per il teatro: Il birraio di Preston, Troppu trafficu, poi nenti, La cattura, Cannibardo e la Sicilia, La concessione del telefono, Il casellante, ma soprattutto Festa di famiglia, un mélange di temi e figure pirandelliane descritte e messe in relazione fra di loro attraverso il “metodo Camilleri”: un intreccio spasmodico e accattivante di eventi che si affermano in scena con una semplicità volutamente amatoriale, con la sua bella “luna di carta” sul fondo e quell’“odore” di teatro perduto ma incessantemente cercato, amato, quotidianamente ritrovato. Giuseppe Liotta

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