I premi, le giurie, le lobbies
non è tutto oro quel che luccica

Intorno alle assegnazioni dei premi teatrali si scatenano sempre discussioni, più o meno legittime. Qualche spunto di riflessione e quattro “carte d’identità”.

di Claudia Cannella
Da che mondo è mondo, ricevere un premio fa sempre piacere. E spesso i più felici sia di riceverlo che di assegnarlo sono quelli che, fino al giorno prima, lo schifavano come risultato di pastette tra giurati e aree di potere teatrale. Parafrasando Andreotti, si potrebbe dire che un premio logora chi non lo prende e chi non faceva parte di quella giuria. Splendori e miserie dell’animo umano e soprattutto di quel mondo fragile che è il teatro, dove i premi probabilmente non portano più né successo né denaro, ma almeno tirano un po’ su il morale. Sono comunque un piccolo rito collettivo, non virtuale e specchio antropologicamente interessante dei tempi. Ma i premi sono tutti uguali? E i riconoscimenti assegnati finiscono sempre nelle mani dei soliti noti in virtù del fatto «che i giurati sono sempre gli stessi da un premio all’altro» ovvero «espressione della stessa consorteria critica», come sostengono Anna Bandettini sul suo blog (9 gennaio 2019) e Roberto Rinaldi sul sito Rumorscena? Mi sembrano teorie piuttosto superficiali, almeno per quanto riguarda l’aspetto identitario che ogni premio, nel bene o nel male, possiede.

A questo proposito, e per arginare la penosa tendenza italica di parlare per sentito dire e perché si è convinti di sapere tutto, ho chiesto ai responsabili dei quattro premi teatrali a mio avviso più importanti di compilare una carta d’identità “tecnica”, che trovate nella pagina accanto. Basta leggere le caratteristiche dei Premi Anct, Hystrio, Le Maschere del Teatro e Ubu per comprendere che ci sono differenze macroscopiche: di vocazione (su episodi/artisti meritevoli nell’arco di una stagione teatrale per Le Maschere del Teatro e Ubu, su percorsi più articolati nel tempo per Anct e Hystrio), di modalità di voto, di composizione della giuria. Che poi ci sia un passaggio di giurati da un premio all’altro di per sé mi sembra abbastanza naturale. Siamo quattro gatti. Così come il fatto che, all’interno di ogni giuria, si faccia un po’ di lobbying. Pratica che ritengo sana se esercitata per non disperdere voti e per non creare candidature fondate sul nulla stile consultazioni pentastellate sulla piattaforma Rousseau. E anche se è pratica volta a segnalare, con respiro ampio e a livello “nazionale”, artisti, tendenze, progetti meritevoli di attenzione. E qui sta il primo problema. Due dei quattro premi citati sono dominati da lobbies connotate più geograficamente che teatralmente, pronte a difendere innanzi tutto gli artisti del territorio, i teatranti dop. E non importa se sono imbarazzanti o se i riconoscimenti finiscono sempre ai soliti, che ormai ci hanno arredato casa. L’Ubu è governato da alcuni anni – chissà cosa ne penserebbe Franco Quadri… – da due potenti “famiglie”: quella emiliano-romagnola e quella romana. Solo nell’ultima edizione, su 15 categorie, 9 hanno avuto per vincitori artisti provenienti – per nascita, adozione, produzione – da quelle due aree. Stesso discorso per Le Maschere del Teatro: Napoli fa sempre il bottino più ricco (nel 2018, 9 artisti dop su 13 categorie).

E poi c’è la questione della composizione e dell’autorevolezza delle giurie. Non voglio ritornare sull’andamento psicologicamente ondivago di Bandettini che, dal 2014 a oggi, è passata dal difendere a spada tratta l’Ubu (vedi suo blog, 27 maggio 2014 a commento del mio articolo “Nel labirinto dei premi teatrali c’è bisogno di regole chiare”, Hystrio 2.2014) al dimettersi dalla giuria e infine a denigrarlo. Ma vero è che quella che, ai tempi di Franco Quadri, era la giuria più prestigiosa d’Italia, in cui era rappresentato tutto l’arco costituzionale della critica, oggi ha perso per dimissioni alcune figure autorevoli (Renato Palazzi, Maria Grazia Gregori, Magda Poli, Anna Bandettini…), altre continuano a essere assenti ingiustificate, mentre sono in costante aumento nomi teatralmente poco significativi. Cosa che ha trasformato lo spirito curioso e lungimirante à la Quadri in un mix banale di “famolo strano” e di provincialismo. E che dire poi degli 800 giurati delle Maschere del Teatro? Sarebbe interessante conoscere i nomi e i criteri con cui vengono scelti. Credo che tutte le giurie abbiano dei punti deboli, ma su un paio di cose non si dovrebbe mai transigere: che siano formate da persone che vanno a teatro assiduamente, vedendo di tutto, e che, possibilmente, esercitino la funzione di critico o di studioso del settore. Anche solo per una questione di rispetto: del teatro, degli artisti e del loro faticosissimo lavoro.

Hystrio 2.2019, pagg. 8-9

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